
Le parole che ascoltiamo, pronunciamo o pensiamo lavorano tutto il tempo sulla nostra mente.
Anche se non siamo totalmente consapevoli di questo movimento senza sosta, il fenomeno influenza nel modo più radicale i comportamenti che mettiamo in atto e i valori che ci guidano.
Gli addetti ai lavori, ovvero coloro che si occupano di crescita e sviluppo personale, sanno perfettamente che imparando a selezionare e ordinare le parole che vengono generate dalle interazioni con se stessi e gli altri, è possibile ottenere effetti precisi sulle proprie condizioni di vita. A seconda di come si combinano le parole si creano infatti delle narrazioni ovvero delle storie, che aiutano le persone a interpretare gli eventi e ad agire nel mondo. Inoltre queste storie determinano anche la natura delle relazioni tra gli individui. A volte ci si limita ad accettare le storie degli altri, altre volte le si mette in dubbio, altre ancore si creano versioni alternative che vanno in concorrenza diretta con quelle che sono state proposte.
Le parole e le storie assolvono quindi a una duplice funzione:
1. creare un modello, rappresentazione o mappa che si avvicini il più possibile alla realtà percepita;
2. determinare la natura delle relazioni con gli altri individui.
L’insieme di questi processi viene anche definito programmazione. In linea generale chiunque si avvicini a un percorso di lavoro su di sé ha come scopo finale quello di apprendere a rilevare le storie superficiali e profonde che la propria mente racconta. Dopo averle individuate, di norma, si cerca attraverso le tecniche più disparate d provocare un cambiamento delle narrazioni ricorrenti, con l’intenzione di generare un effetto positivo e duraturo.
Da addetto ai lavori ho osservato che molto spesso, la pratica assidua della modifica delle proprie storie causa un indesiderato effetto collaterale: il depotenziamento della funzione protettiva della mente, ovvero la sua capacità di fare da filtro rispetto alle narrazioni che vengono generate da posizioni di autorità. Nel momento in cui questo accade la mente non è più un efficace guardiano della soglia, ovvero un elemento in grado di discriminare quali narrazioni aiutano l’evoluzione del proprio essere, inteso come qualità specifica dell’esistenza come essere umano, e quali la ostruiscono. In parole povere, la mente inizia a bersi qualsiasi cosa.
Come è possibile ovviare a questa degenerazione e allo stesso tempo riuscire ad andare oltre a quelle storie che oramai sono solo un ostacolo alla nostra evoluzione?
La risposta a questa domanda è sconosciuta alla maggior parte degli stessi esperti di programmazione mentale e operatori dello sviluppo personale. Alcuni non si pongono neanche la domanda perché non sono consapevoli dell’effetto collaterale, altri pur sapendo che c’è una risposta non la trovano veramente mai perché pensano che la soluzione stia in un modo diverso di programmare o in un miglioramento qualitativo della programmazione. In realtà una tecnica per la programmazione resta una tecnica per la programmazione, non importa quanto sofisticata sia e quanto sia supportata dalle ultime scoperte neuroscientifiche.
Premettendo che nel momento in cui usiamo una parola siamo sempre nell’orizzonte del gioco mentale della programmazione e che quindi l’espressione che utilizzeremo ha semplicemente un valore indicativo rispetto all’esperienza alla quale ci riferiamo, il segreto consiste in un’operazione che definiamo de-programmazione.
Per fare questo dobbiamo coglierci in un momento in cui:
1. non siamo impegnati nella creazione di un modello, rappresentazione o mappa che si avvicini il più possibile alla realtà percepita;
2. non è in gioco la determinazione della natura delle relazioni con gli altri individui.
Sperimentando la de-programmazione attraverso istanti di disciplinata libertà preserviamo lo spazio della mente e i suoi confini naturali.
La conoscenza diretta della sua sostanza nel momento in cui non è impegnata a trastullarsi con lo storytelling sfrenato, o a raffinare le rappresentazioni che ha acquisito dall’esterno, provoca una trasformazione irreversibile dell’essere.
Uno dei benefici più importanti è che in questo modo la mente mantiene integra e anzi, fortifica, la propria funzione di filtro rispetto a narrazioni che sono nocive per l’essere di cui è composta. Entrando in contatto con la propria natura rigetta composti semantici tossici, ovvero aggregati narrativi che sono contrari all’evoluzione dell’essere umano e alla sua coesistenza armoniosa con gli esseri che compongono la vita sul pianeta Terra.
Ciò non le impedisce di continuare a costruirsi delle storie che invece siano compatibili con il principio di rispetto della vita umana e dei suoi inalienabili diritti.
Essere in grado di discriminare le storie che il sistema immette ininterrottamente al proprio interno è una facoltà imprescindibile per chi vuole apprendere a operare una corretta programmazione su se stesso.
La crescita personale più potente è quella che fortifica lo spirito critico.
Riccardo Cantone
Lugano 2022