
Proviamo a immaginare noi stessi, il nostro corpo e la nostra mente, come se fossimo un forno. So che vi potrà apparire un’immagine bizzarra e non di non semplice collocazione, eppure può divenire anche il principio di una meditazione rivelatrice di alcune verità fondamentali su noi stessi.
Se noi fossimo un forno (gli arabi direbbero at- tannur, di cui l’athanor alchemico), cos’è che verrebbe cotto? Come si genererebbe il fuoco e come sarebbe possibile tenerlo acceso? Che fine farebbe la sostanza che viene cotta?
Dobbiamo lavorare col materiale che abbiamo a disposizione, che è lo stesso per tutti gli esseri umani. Quello visibile, il corpo, e quello invisibile, le emozioni, i pensieri e le sensazioni o come dice Titus Buckhardt “l’insieme di facoltà psichiche che hanno il corpo per supporto e sono accessibili tramite la coscienza corporea”. Da ciò ne consegue che tutti noi siamo dei forni o se preferite, ognuno di noi è provvisto da madre natura della dotazione di un fornello alchemico al momento della nascita, che va poi restituito al momento della morte. Il fatto di essere in possesso dello strumento non significa che questo venga utilizzato. Tuttavia esiste la possibilità.
Ora veniamo al fuoco. Dove si trova? In un desiderio, in un’immagine mentale, in un’emozione che ci fa vibrare e ci scuote. Qualcosa sempre brucia dentro di noi. Non solo: quando sentiamo un dolore, un mal di testa o di pancia, il corpo si incendia e naturalmente in tutti questi casi, quando il fuoco si spegne, si accumula dentro di noi la cenere che ne resta. Per questo sentiamo il continuo bisogno di purificarci, per smaltire ed espellere le sostanze nocive che si accumulano nel nostro organismo.
Farsi bruciare dentro da emozioni negative e passioni passeggere non significa tuttavia che si sta usando il forno alchemico. Al contrario l’autocombustione della materia necessaria per il lavoro ci priva della possibilità di iniziare ad usarlo. Il fuoco è nascosto nell’attenzione. Esempio: ho un’avversione verso qualcuno. Se la lascio bruciare dentro terminerò per avvelenarmi o compiere un’azione avventata. Se presto attenzione a quella avversione sforzandomi di considerarla per quello che è, sto generando il fuoco che serve ad alimentare il mio forno alchemico. In questo caso il fuoco non brucia ma trasforma e la sostanza che viene generata da questo processo, il residuo o cenere del processo alchemico non avvelena il corpo e la mente, ma li rigenera e ravviva.
Inoltre la forza vitale che abbiamo dentro, l’energia che ci permette di respirare e muoverci ha in sé un fuoco latente potentissimo. Per risvegliarlo e alimentare l’athanor è necessario risiedere dolcemente in essa, in questo modo il fuoco che viene generato non è violento ma avvolgente e penetrante. Il calore risultante vivifica l’anima restituendoci la gioia della percezione. Il fuoco alchemico genera la sostanza dell’anima, la ravviva e la alimenta. Su di essa le passioni non hanno più presa in quanto la cenere diviene una sostanza viva e un terreno fertile per l’influenza di elementi più sottili e meno grossolani delle emozioni negative.
Esempio. Mi sento debole e con poca forza vitale. Per accendere il fuoco avrò bisogno di porre la mia attenzione sulla sensazione stessa di debolezza, percependola da dentro e esplorandone i confini. Può sembrare un paradosso ma in questo modo il fuoco latente viene risvegliato ed è possibile accedere all’athanor.
Il linguaggio alchemico è sempre stato oscuro e ermetico non per licenza poetica gratuita ma perché può condurre la mente a un atteggiamento introspettivo. I simboli, le allusioni e le metafore ci aiutano a dischiudere lo scrigno nel quale teniamo chiuse le forze elementali che costituiscono il senso più profondo della materia. Gradualmente ci rendiamo più sensibili all’energia che ci agita e ci vivifica, indipendentemente dalla situazione di partenza della nostra personalità. Che siamo deboli, violenti, irascibili o tristi abbiamo tutti la stessa possibilità di riscoprire il fuoco e far funzionare il forno interno.